Di Angelo Massimino c’è tanto da raccontare e da ricordare. Non è stato un personaggio facile da digerire; su di lui se ne sono dette di tutti i colori: rozzo, sgrammaticato, inappropriato, testardo, burbero. Si beccò qualche denuncia e persino una condanna per aver impedito l’ingresso ai giornalisti ed alle telecamere allo stadio, convinto che il calcio andasse goduto sui gradoni e non sul divano.
Dei tre presidenti più longevi (insieme a Marcoccio e Pulvirenti) è quello con cui il Catania ha avuto meno campionati di vertice (appena due stagioni in serie A).
È stato deriso dalla stampa nazionale, accusato da quella locale, contestato dai tifosi che gli tirarono pure uova e pietre alla finestra di casa e tentarono di aggredirlo fisicamente sul campo d’allenamento a Valverde.
Eppure…
Massimino, che non aveva studi di economia, competenze di marketing, lauree in sociologia, ma solo un diploma elementare, capì una cosa fondamentale: il calcio è della gente.
E, in quell’estate del 1993, quando aveva chiunque contro, fece di tutto per salvare il titolo sportivo del Catania. E ci riuscì.
Quando ripartire da zero sembrava la scelta migliore, quando mandare tutto all’aria sarebbe stata la cosa più istintiva da fare, quando la lobby massonica del calcio sembrava potesse stritolare un’umile squadra del sud, Massimino restò al proprio posto, perdendoci anche la salute.
La gente lo capì tardi, solo dopo che le uova erano state lanciate, solo dopo che in città si era creata una nuova squadra. Capì in ritardo l’immensità umana di chi viveva il calcio senza il velo del business, degli intrallazzi politici e dei grandi appalti. Capì in ritardo che quella persona che buttava il sale a bordo campo lo faceva perché ci credeva davvero, seppur commettendo svariati errori.
Oggi di “Massimino” non ne esistono più. Decine di grandi società sono fallite e ripartite: Fiorentina, Napoli, Salernitana, Reggina, Palermo, Messina, solo per citarne alcune.
Noi siamo originali. Dal 1946. Anzi, dal 1929, se solo la guerra non avesse interrotto la continuità storica a suon di bombe.
E lo dobbiamo a questa persona, che il 4 marzo di ventuno anni fa moriva proprio per difendere i nostri colori.
Non è un eroe, ci mancherebbe. Però è stato l’artefice di momenti indimenticabili: Reggio, Roma, Gangi. Tutti diversi, tutti sublimi, tutti simboli di un calcio d’altri tempi, di un calcio che univa.
C’è chi ricorda solo l'”amalgama” e gli altri strafalcioni, usando la sua figura per farsi due risate ipocrite.
Noi vogliamo ricordarlo con un “grazie”, perché spesso ci si dimentica di quanto possa valere un amore incondizionato, semplice, spontaneo, senza maschere. Insomma, un amore vero, come quello del Cavaliere per la squadra della sua città.
Ciao, Presidente!