Scusi le piace Brahms? – Charlotte Perriand

Scusi, le piace Brahms, Madame Perriand?…Charlotte?… volevo farle qualche domanda, ma magari potremmo spostarci in un posto più tranquillo, più riparato, sa, io soffro di vertigini, qui su queste cime, e con questo vento che scompiglia anche i pensieri, non mi sento a mio agio… e poi questa eco, la mia voce che mi ritorna indietro come se le domande le stessi facendo a me stesso…
– Non mi dica che non le piace questo posto! la montagna è sempre stata la mia passione, su queste cime a strapiombo sul mondo dove il cielo ha lo stesso colore di neve delle valli, dove neanche il sibilo del vento fa rumore, dove l’orizzonte non è una linea ferma, netta, che spartisce dove siamo e dove non potremo mai essere ma è spezzato e trafitto e quasi si ritrae di fronte all’imponenza della terra e l’asseconda e si perde nel chiarore abbagliante di questo bianco crudele, qui, solo qui, io mi sento immateriale, perdo la mia sostanza e la mia forma e divento io stessa paesaggio…
– Sì, capisco, una vita spesa alla ricerca della materia e della forma e della forma della materia, e dire che l’inizio non è stato facile. Lei ha raccontato che quando, nel 1927, giovane studentessa di architettura, con una cartella di disegni sotto il braccio, chiese di far parte dell’atelier al numero 35 di rue de Sévres a Parigi, Le Corbusier, gettando un’occhiata distratta ai suoi lavori, le rispose sarcastico :- Qui non si ricamano cuscini…» e le indicò la porta.
– Eppure, qualche mese più tardi, fu Corbù che mi invitò ad entrare nel suo atelier dopo aver visto i miei lavori al Salone d’Autunno di Parigi nel 1927, e lì ci rimasi per ben dieci anni: ero la responsabile della progettazione d’interni e del disegno di elementi d’arredo…
– Che sono diventate delle vere e proprie icone di tutto il XX secolo…
– Ci chiamavano “avant-garde”, ma, vede, per noi la nostra ricerca era naturale …noi ci sentivamo perfettamente al passo coi tempi, perché quello volevamo fare: costruire il nostro tempo, inventarlo, al di là di ogni etichetta che, per carità, anch’io ho usato per far capire quale fossero le nostre idee, la nostra distanza da certi canoni dominanti …quella che ho sempre preferito è “L’ unité de choc”…
– In che senso, costruire il vostro tempo?
– Il nostro è stato il tempo dei grandi rivolgimenti, il tempo della guerra, il tempo degli opposti, un’epoca in cui si è fatta la Storia, noi siamo stati epopeici, abbiamo cercato – come qualcuno ha detto – di conciliare l’inconciliabile: usare materiali freddi, duri, rigidi, industriali come l’acciaio, l’alluminio, il vetro e fletterli, arrotondarli, renderli avvolgenti e farci “les machines” – così le chiamava Corbù – per riposarsi, sedersi, abbandonarsi, dimenticare…
– Le Corbusier – si dice – non si accontentava di vedere la struttura, voleva sentirla con le dita. Anche lei, dunque, ritiene che, come lui scrisse, “la vita è nella palpazione”?
– Corbù aveva mani grandissime, febbrili, frenetiche, affamate, in continua ricerca, come se fossero il dispiegarsi del suo pensiero. La mano tocca, stringe, per conoscere e prendere, la mano quando si chiude serve per tenere e non per lasciare, o per rifiutare. Ci ha mai fatto caso che la mano aperta accoglie, riceve, conosce, trattiene e non scivola via?
– “Aperta per ricevere, aperta anche perché ognuno ci venga a prendere…”
– Le deve piacere tanto Corbù, vero?…devo dire che mi ha insegnato molto: tutta la sua vita fu una grande mano aperta…
– Madame Perriand, non doveva essere facile per una donna affermarsi, a quel tempo, in un campo dominato dagli uomini, specie se si vuole inventare la materia…
– Vede, forse la nostra avanguardia consisteva proprio in questo. Ci eravamo liberati delle regole, non le seguivamo, partivamo dall’osservazione di quello che c’era in natura, pietre, ossi, radici, nodi di tronco…I nostri zaini erano pieni di questi tesori…che noi battezzammo con il nome “Art Brut”… per noi la natura era bellezza primordiale, purezza delle linee, forza della materia… la forma non è un’astrazione, la forma è organica, è forma di vita…
– La forma della natura, Madame Perriand, quella che ha cercato di catturare con le sue foto, scattate nelle sue lunghe camminate in montagna o nei suoi viaggi attraverso l’Europa, come quella foto della pietra bianca, liscia…
… che pure fa un’ ombra nera e puntuta, che pare indicare una direzione, un posto dove andare, un invito a cercare ancora, a non fermarsi mai, ad andare da un’altra parte, a scoprire lo spazio, una pietra piena e paga di sé, che riposa dentro un piccolo cavo di sabbia che la ripara e l’accoglie come una mano …
– …scavata su una leggera cunetta, lievemente increspata dal vento, che la ondula come mare e la pettina come capelli di donna, rugosa del tempo che segna l’anima della terra.
– …la curva della pietra che chiude e definisce la materia, solida, piena, e le linee che incidono la sabbia, lunghe, aperte, che non hanno né inizio né fine che ombreggiano la superficie di grani fini e morbidi, parallele eppure vicinissime quasi a toccarsi che sembrano stare lì come a farci capire che senza le tenebre non vi può essere luce e quella pietra è al nostro sguardo e al nostro tatto tanto più liscia e levigata e rotonda perché intorno c‘è quell’aratura di linee che da quella pietra si dipartono, per esaltarne la sua dolce rotondità…
– Madame Perriand, la prego mi dica: ma come è riuscita a creare la perfezione di quelle sedute, la chaise longue, ad esempio che ancora oggi è una delle più famose nel mondo…
– dovevano essere l’estensione dei nostri arti e adattarsi ai bisogni dell’uomo, dovevano essere arti, braccia, gambe, mani, piedi, capisce?
– … e, come sono gli arti, essere “docili servi”- così li chiamava Corbù – e come un docile servo essere discreti e schivi e lasciare libero il proprio padrone. È a questa idea che allora ha cercato di dare forma?
– Una culla, fatta per dondolarsi e distendersi, che racchiude in sé tutte le figure geometriche: la curva della bascula, il triangolo equilatero che si stonda lungo i lati della superficie della seduta e il rettangolo del piedistallo, una culla in acciaio, essenziale, funzionale, eppure calda, accogliente, dove possono riposarsi financo i sogni…
– Quella sua foto di lei distesa, con la gonna che si apre, come un ventaglio discreto, mentre lei ha il capo rivolto verso la parete bianca a guardare la sua ombra sembra dire proprio questo: la pace, la leggerezza della materia, che quasi sfuma nell’ombra, come non ci fosse alcuna differenza, tra l’oggetto e il suo contorno riflesso, come se fossero fatti della stessa eterea sostanza dei sogni…
– …e quell’angolo bianco, scaleno che emerge dal fondo nero del suolo, quello spigolo di muro, incrocio di rette dure che tagliano lo spazio e lo aguzzano, come le vette della mia Savoia, eppure fatto per racchiudere me, distesa, con le gambe per aria, su quel crepuscolo fluttuante di ombra e di sogno…
– La forma del vuoto pensata come la forma del pieno…
– Giusto! Il vuoto non è ciò che residua del pieno. Il vuoto è l’anima dell’architettura. Il vuoto e il pieno sono complementari, si integrano per creare insieme spazio, volume, sostanza. Anzi, a volte il vuoto è più pregnante della forma piena che soltanto l’avvolge. Attraverso il vuoto, la forma diviene…
– Mentre la ascoltavo, le sue parole mi hanno fatto venire in mente la sua libreria “nuage” – nuvola, appunto – progetto che sviluppò dopo un lungo soggiorno in Giappone, in cui è il vuoto che dà forma alla materia, e la libera nello spazio, ed è ancora il vuoto che si sussegue, aperto a contenere qualunque oggetto e divenire, così, la fine, esso vuoto, della sequenza e inizio il pieno di altro ritmo di vuoti…
– E come il vuoto, anche il silenzio fa parte di questo ritmo. Quest’architettura interna è fatta di silenzio, come la musica: lì il silenzio è porto all’orecchio, qui è offerto allo sguardo. L’architettura è come gli uomini, sa?: solo quelli forti possono essere calmi e dolci.
– Ah, come è vero! L’architettura fatta di silenzio…lo so, l’ho sempre pensato ogni volta che ho visto emergere, nella luce del giorno, dalla mia finestra, la corolla dei palazzi che circondano la mia casa. È quel silenzio, che non è vuoto, ma è, come lei ha detto, calma e dolcezza, pienezza di linee tese a raggiungere un cielo che va sempre da un’altra parte. Charlotte, secondo lei, allora, l’architettura è come la musica?…Charlotte, la musica è fatta di silenzio, Charlotte…