Un trionfo negato da un arbitro, un tifoso e una misteriosa scomparsa.
Il mondo è diviso. O almeno così ci hanno insegnato, e così siamo sicuri che sia.
È diviso in continenti, stati, regioni e anche restringendo sempre più l’area d’interesse troveremmo sempre confini e partizioni.
Continuando questo esercizio finiremmo per scoprire divisioni e rivalità nella stessa città, nella stessa strada, nello stesso condominio.
Persino fra coloro che dibattono di questo argomento si sono formate delle opposte fazioni: coloro che a queste divisioni assegnano un valore, da custodire e preservare, e coloro che invece queste barriere le vorrebbero vedere d’un tratto scomparire.
Poi ci sono coloro che vorrebbero cancellati confini e tratteggi sulle mappe, ma non le identità dei vari popoli; e coloro che vorrebbero un solo popolo, una sola identità.
Se non fosse per quel mostro spaventoso che è il denaro, tutti questi confini e correnti di pensiero coesisterebbero nell’impossibile eppure irrefrenabile tentativo dell’uomo di imitare l’insondabile contraddizione della natura: unica e sola, ma infinita nelle sue parti.
Un eterno fuggire alla solitudine alla quale sentiamo di esser condannati, nella ricerca e nel rifiuto costante dell’altro – proprio dell’uomo e della cultura occidentali – che si risolve nella solitudine stessa.
D’estate, finita la scuola e prima del caldo torrido che rallenta il respiro e rammollisce i muscoli, si organizzavano tornei di calcio nei vari quartieri della città.
Uno dei più virulenti era quello di piazza Bovio, di fronte la chiesa di S. Maria degli Ammalati montavano le porte e una rete attorno al campo disegnato sul pavimento della piazza.
Un mio compagno di classe alla fine degli anni ’90 decise di iscrivere una squadra, probabilmente eccitato dalla nostra superiorità nei tornei scolastici, o ancor più dalla prima stagione di Ronaldo in Italia.
Con sorpresa e orgoglio venni chiamato a completare la squadra della Fiera.
In attacco giocava il nostro capitano Brizio Grillo, veloce e duro si era rasato i capelli in omaggio al Fenomeno. Si diceva avesse origini sud americane (cosa probabilmente vera ma di cui non ebbi mai conferma), specialità: bordata da dentro l’area col mancino e sforbiciata al volo, che non sempre riusciva – anzi mai – ma che sempre suscitava rispetto e ammirazione.
A centrocampo giocavamo io e Ciccio Catania, un ragazzo buono cresciuto in un ambiente difficile, con un abisso nel cuore e una forza grande che gli ha permesso di non fare una brutta fine. Non lo vedo ormai da anni, e ancora oggi sento per lui una grande stima.
In difesa giocavano Omar Abu-Touq e Alfredo Patanè. Omar era altissimo già a undici anni, e magrissimo. Nonostante fosse simpaticissimo, e per questo in generale ben voluto, doveva spesso sorbirsi la cattiveria e il razzismo di cui solo i ragazzini sono capaci. Lo faceva con estrema dignità ma attenzione a non superare il limite perché il suo divertentissimo sorriso si tramutava in un istante in una mano in faccia. Queste caratteristiche facevano di lui un ottimo difensore a prescindere dalle sue, poche, qualità tecniche. Alfredo era invece un idiota rissoso già allora, era difficile stargli accanto perché ti saresti potuto ritrovare coinvolto in una rissa senza conoscerne nemmeno il motivo. La sua fama era nota in tutto il quartiere, inutile dire quanto sia utile avere un giocatore così in una squadra.
In porta giocava Antonio Barbagallo, che portiere non era, ma qualcuno doveva pur mettersi fra i pali.
Dei tornei estivi quello di Piazza Bovio era il primo e fra i più importanti, si iscrivevano tante squadre, le partite duravano mezz’ora per tempo e si diceva che fra gli spettatori ci fossero degli osservatori di club professionistici attirati dalle leggende che di anno in anno si facevano sempre più incredibili.
Le squadre più forti erano quelle della Stazione, del Borgo e naturalmente i padroni di casa di Piazza Bovio, che avevano vinto le ultime tre edizioni. Nella prima fase si giocavano quattro gironi da quattro squadre, le prime due avrebbero affrontato la fase a eliminazione diretta in partita secca.
Il primo giorno c’era la banda a suonare, il parroco, il presidente della circoscrizione, i fuochi d’artificio e un’aria di festa che mi fecero sentire come ai mondiali – anche se giocavo a cinquecento metri da casa.
Superammo il girone vincendo le prime due partite con più di cinque gol di scarto, e permettendoci il lusso di perdere la terza giocando solo per far gol di rovesciata (ovviamente senza riuscirci).
Il quarto di finale fu invece una sfacchinata. Arrivammo convinti di stravincere, considerato che affrontavamo S. G. Galermo che si era qualificata come seconda in virtù di una vittoria a tavolino e di una passeggiata contro i più scarsi del torneo. Andammo subito sotto di un gol e ci rimanemmo fino a dieci minuti dalla fine. Si difendevano come se in gioco ci fossero le loro vite, e a ripensare a quella partita non mi sembra affatto di esagerare. Alla fine pareggiammo solo grazie ad un autogol. Quel povero ragazzo che infilò la palla nella sua porta fu coperto di insulti, soprattutto dai ragazzi venuti dal suo quartiere, e si sentì talmente umiliato che praticamente lasciò i suoi compagni con un uomo in meno. Segnammo altri tre gol negli ultimi cinque minuti.
Quella sera uscimmo a festeggiare andando a mangiare al Tubo, che allora ancor più che oggi era una panineria squallidissima che però a noi sembrava meglio dell’East India Club, e qualcuno bevve persino un paio di birre!
Il giorno dopo andammo a vedere il quarto di finale che avrebbe decretato il nostro avversario. Tifammo inutilmente contro la squadra di piazza Bovio: sarebbero stati loro i nostri avversari, a nulla valsero anatemi e preghiere improvvisati.
La finale si giocava di Sabato alle 18.00, per quella partita accorsero per la prima volta genitori, parenti e amici di ognuno di noi. Avevamo una curva di più di trenta persone, che in una piazza è un’enormità, ci sentivamo dei calciatori veri e volevamo vincere.
Dopo dieci minuti dal fischio d’inizio il punteggio era già di 3-0 per noi! Assurdo, nessuno poteva crederci. Al terzo gol anche i nostri tifosi cominciavano a sentirsi in imbarazzo, sulla piazza era calata una nube di tristezza, pure il cielo si era fatto grigio. Chi avrebbe mai detto che la prima trasferta della mia vita l’avrei giocata andando a piedi al campo? L’atmosfera di festa del primo giorno di torneo era svanita, avevamo occhi pieni di odio puntati addosso. All’intervallo vennero a minacciarci, ma a quanto pare fui l’unico a prendere sul serio quelle intimidazioni.
Il secondo tempo cominciò come il primo: attaccavamo solo noi, io colpii il palo e gli avversari praticamente non giocavano.
A venti minuti dal fischio finale un gruppetto di ragazzi di Piazza Bovio si piazzò dietro la nostra porta. Senza che nessuno potesse sentirli o badasse loro, cominciarono a dire qualcosa ad Antonio.
Gli lanciavano piccole pietre e oggetti di ogni genere, quando nessuno li guardava lo colpivano sul collo o gli slacciavano le scarpe.
La partita procedeva nel migliore dei modi per noi, fino a quando un giocatore avversario tirò da centrocampo piano e rasoterra, tanto che non ci girammo finché non venne accerchiato dai suoi compagni per esultare. Andammo dritti verso la nostra porta, decisi a inveire contro Antonio per quel gol preso con un tiro così brutto. Peccato però che Antonio in porta non c’era più! I ragazzi dietro di lui lo insultarono e minacciarono fino a farlo crollare, non sapemmo mai cosa gli dissero ma a quanto pare fu abbastanza per farlo fuggire via dal campo.
Non sapevamo cosa fare, l’ingiustizia ci sembrava palese ma nessuno sembrava essere d’accordo con noi. L’arbitro ci diede tre minuti per trovare un sostituto, lo guardammo come se fosse pazzo. Quando addirittura ci avvertì che nessuno di noi poteva andare in porta, e che quindi se non avessimo trovato un sostituto avremmo dovuto giocare senza portiere, dovemmo tenere Patanè che voleva riempirlo di botte. A quel punto avremmo perso la partita a tavolino e non volevamo dargliela vinta.
Ovviamente non trovammo nessuno disposto a intromettersi in questo malaffare, e una volta sedati gli spettatori il gioco riprese. Mancava solo un quarto d’ora ed eravamo in vantaggio di tre gol.
Provammo a difenderci e ci segnarono, allora ci buttammo in attacco e ci segnarono, cominciammo a fare falli e la partita durò dieci minuti in più. Alla fine riuscirono a segnare il gol del 4-3 e l’arbitro fischiò la fine dell’incontro. Provammo a farci giustizia da soli, ma venimmo cacciati via dalla piazza a calci e spintoni.
Non so chi vinse quel torneo e non tornai per molto tempo in Piazza Bovio, so solo che tornando verso casa trovammo Barbagallo seduto di fronte la scuola a piangere. Quando ci vide si rassegnò a ricevere botte e insulti. Invece ci sedemmo con lui e non dicemmo nulla.
Il portiere è solo, noi eravamo degli stranieri.
Abbiamo perso, e io non mi ero mai sentito tanto vicino a qualcuno.