Avvertenza: parlare di musica significa mettere in relazione un sacco di cose.
Io in questo abbondo. E a volte ne faccio una questione personale.
Pertanto, se vuoi leggere solo del disco passa direttamente al secondo paragrafo da qui».
Altrimenti buona lettura e sii indulgente.
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1.
Avevo postposto la sveglia tre volte. Era domenica e in due ore dovevo: pranzare, dominare i postumi della sera prima e preparare la puntata per il programma che di lì a poco avrei condotto in radio. Non avevo avuto tempo durante la settimana per documentarmi. Dovevo parlare di un disco che avevo più letto che ascoltato. Un po’ di ansia. Ma me ne sarei uscito. Pensai ancora una volta a quello che mi disse un tempo Andrea Lo Pinto.
Era un collega d’ufficio di mia madre. Per molti anni le nostre famiglie si frequentarono con amicizia. L’odore delle nostre cucine a pranzo, soprattutto nelle domeniche d’autunno e inverno, è per me indimenticabile. Come memorabili sono alcune cose di lui. Era un ottimo conversatore, col pacchetto di sigarette sempre pieno di argomenti. Nei suoi discorsi sapeva far distinguere ad orecchio le maiuscole, le minuscole ed i segni di interpunzione. Poi nel bel mezzo della discussione si addormentava, per stazza e diabete. A lui ho sentito dire “Dio non è buono: Dio è giusto“: avevo tremendi 12 anni, mi sconvolse. Cambiò città poco tempo dopo l’inizio dell’inchiesta “Mani pulite”. Come socialista, l’evento lo rattristò moltissimo ed infeltrì le lane bordeaux che indossava, la pelle sempre più grigia. Pensione in banca, se ne tornò da dove era venuto, a Maranello, che avevo orribili 14 anni. Mai più visto.
Passano mezza dozzina di stagioni e per le stanze dell’edificio dove mamma lavorava s’aggira la notizia che Andrea Lo Pinto è morto. Nessuno ebbe il coraggio di verificare. Tranne lui, che telefonò interno per interno: “Pronto? Volevo capire se ero ancora vivo. Secondo te? Bene. Dillo ai colleghi in stanza. Ciao.”
Quella volta che mi chiese “E tu come le sai queste cose? Ci sei mai stato?” ed io “No…”, mi premiò un sorriso ed il suo compiacimento: “Tu sei come Salgàri: sapeva parlare di luoghi che non aveva mai visto. E indovinava.”
Ma in realtà, l’accuratezza di Salgàri nel descrivere luoghi e culture che non aveva mai visto, era il risultato di ore e giorni passati nell’eccellente Biblioteca Civica Centrale di Torino. Studi così approfonditi, che lo portarono a scovare un “Sandokan” realmente esistito, secondo quanto scrive la dottoressa Bianca Maria Gerlich.
Ora che concorro per i 40, in comune con il romanziere, ho anacronistici baffi a punta, molti debiti, un tentativo di suicidio fallito ai danni della persona che più amo al mondo, nata per caso lo stesso giorno dello scrittore. Che poi riuscì ad ammazzarsi, come da tradizione di famiglia: prima il padre ed in futuro i figli Romero ed Omar.
Si tolse la vita perché la sua condizione economica era deprimente, contrasse molti debiti per mantenere uno stile di vita accettabile e in più s’aggiunsero le spese mediche per la moglie malata. Cose che lo portarono a firmare contratti di lavoro vergognosi: 3 romanzi all’anno con stipendio fisso. Talora scriveva sotto pseudonimi per aggirare quegli stessi accordi con le case editrici. Uno sforzo creativo, obbligato e logorante, che lo portò a concepire e scrivere dal 1887 al 1911, circa 200 opere, tra “seriali” – come si direbbe oggi (su tutti i cicli di Sandokan e del Corsaro Nero) – e singole. A mano e senza revisioni.
E scrivere storie d’avventura significa: ordire la complessità e misteri e fatti che non cadano in contraddizione, coerenti, sempre originali e che non duplichino uno schema od una situazione già scritta; costruire scenari ignoti e moltiplicati; inventare la malvagità e rinnovarla in efferatezza; “coreografare” azioni in crescendo e violente; cambiare registro in base ai punti di vista di personaggi di diversa nazionalità, detentori quindi dei valori culturali della loro terra d’origine; veicolare un qualche messaggio edificante, nonostante i morti e il sangue, con un linguaggio stimolante e adattato al bagaglio culturale del pubblico di riferimento: i ragazzi. Che divoravano i suoi scritti, preoccupando genitori (ipocriti, perché lo leggevano anche loro), educatori, insegnanti (a scuola bisognava imporre un altro mercato) e uomini di chiesa (c’era un vago erotismo nei suoi racconti, troppe religioni, amori tra persone di etnie diverse – orrore! – e uomini poco timorati). Che di ideali positivi trovavano poco e reputavano deleteria l’esaltazione che suscitava nei giovani.
Molto più pedagogici e utili alla causa dell’Italia unita (da unire ancora ad Est), “risorgimentosa” e rampante, erano i personaggi di Edmondo De Amicis narrati in “Cuore” (1885) – “il libro più letto d’Italia” – insieme con Collodi e l’immenso “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino” (1882): il nobile Garrone, a differenza di Yanez, non fumava e l’asmatico Pesce-cane nel cui stomaco Geppetto riabbraccia Pinocchio era più educativo di un Achab deforme e rabbioso che annega legato al rampone con cui trafigge la balena Moby Dick, nell’omonimo capolavoro di Melville.
Anche De Amicis, abitava a Torino, in provincia: Pinerolo. Gli storiografi collocano tra i prigionieri della Rocca di Pinerolo, il misterioso individuo conosciuto come la Maschera di Ferro. La notorietà di questa figura, oltre al mistero legato alla sua reale identità, si deve alle indagini di Voltaire ed al successo del “Ciclo dei Moschettieri” romanzato da Alexandre Dumas padre. Dumas è stato un amico del nostro Risorgimento. Militò con Garibaldi, fornendogli armi durante lo sbarco dei Mille. Entrò con lui vittorioso a Napoli, guadagnandosi la nomina di direttore degli scavi e dei musei per l’ex capitale del Regno delle Due Sicilie. Due considerazioni, quindi, sulla Francia e su Napoli.
Salgàri si sentiva, per così dire, in sana competizione con Jules Verne, dal quale, in virtù di future traduzioni, aspettava un cenno. E certamente i suoi racconti non erano meno avventurosi di quelli di Dumas. Inoltre, era persino più produttivo di Balzac, benché a distanziarlo da quest’ultimo ci sia una prosa di livello inferiore. Forse un tentativo di esportazione in Francia, Salgàri avrebbe potuto farlo. Economicamente il valore della lira lo avrebbe sostenuto: erano gli anni in cui “la lira faceva aggio sull’oro” (terzo governo Giolitti). Tutt’al più, se non si fosse arricchito, poteva sperare nel riconoscimento di un ambiente letterario ufficiale, quello francese, più accogliente verso il genere avventuroso e fantascientifico per ragazzi, rispetto a quello italiano. Anziché subire l’indifferenza della critica e dei suoi colleghi contemporanei: i veristi prima (Verga, Capuana, Deledda – che tra le altre cose aveva tradotto Balzac) e le “penne da Nobel” poi (Carducci, l’eterno candidato Fogazzaro e Pirandello – la cui moglie subì la stessa sorte del nostro).
Ma è anche vero che in quel periodo la pubblicistica italiana viveva una trasformazione, rinnovandosi. Considerato che Salgàri scriveva a puntate per i giornali, forse una lettera a Matilde Serao, avrebbe potuto inviarla: lei fondava “Il Mattino” di Napoli (la prima donna in Italia a dirigere un quotidiano) e chissà se non potevano essere utili alle vendite quegli inusuali racconti per ragazzi. Napoli ancora scintillante di modernità borboniche non ancora vanificate dall’Unità d’Italia, dove aveva soggiornato e partorito la regina Margherita di Savoia, quella della pizza, promotirice d’arte e cultura, cattolicissima, imperialista e sostenitrice di Bava-Beccaris che spara sulla folla (durante le cosiddette “4 giornate di Milano“, 1898); la stessa che nel 1897 elevò Salgàri al rango di “Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia”. Titolo che non servì a migliorarne il censo e ad introdurlo nel dibattito letterario italiano.
Quando misconoscimento, abuso di fantasia, debiti e moglie malata in manicomio, si fecero ingestibili, si squarciò gola e ventre nel parco di Villa Rey a Torino, liberandosi dalla vita. Era il 25 aprile 1911, un giorno che a quel tempo per l’Italia valeva quanto un martedì qualunque. Precursore fino alla fine?
Se lo è, non certo per coincidenza di date. O non solo per fanta-scenari o scienza. Fu precursore soprattutto perché quell’introdurre i lettori nel bel mezzo delle azione con dialoghi o con carrellate sul paesaggio, anticipava il modo di scrivere un soggetto cinematografico (come non pensare al countdown delle pellicole, leggendo l’incipit di “Capitan Tempesta”?).
Il cinema, già. Quello “di narrazione”, che racconta una storia e non mostra solo brevi azioni in movimento per puro intrattenimento (“cinema delle azioni mostrative”), che nasce tra il 1914 e il 1915. La contesa sulla pellicola iniziatrice è tra l’italiano (con didascalie di D’Annunzio) “Cabiria” di Pastrone (1914) ed il razzista “The Birth of a Nation” dell’americano Griffith (1915), memorabili oggi perché per primi applicano un modello analitico di montaggio. Credo, però, che nemmeno in uno slancio di resistenza di quattro anni, l’imprevedibile avvento del cinema lo avrebbe salvato. Le prime trasposizioni cinematografiche dei libri di Salgàri risalgono al 1920. In mezzo, tra l’estate 1914 e la fine del 1918, c’è la prima guerra mondiale. L’Italia entrò in quel conflitto nel 1915. Se non l’aveva fatto prima è stato grazie alla strategia di neutralità e non-intervento attuata dall’allora ministro degli esteri, il catanese Antonino Paternò Castello, marchese di San Giuliano.
Via Antonino di San Giuliano, a Catania, è l’inizio del percorso che a piedi compio da casa mia sino alla radio. 15 minuti se vado veloce.
Abbandono il giaciglio ucronico e apro il balcone.
La stanza è disordinata, il frigo è una desolazione, mangio 2 caffè e una sigaretta. Accendo il computer, scrivo qualche parola chiave nel browser, faccio appello al talento che Andrea Lo Pinto credeva io avessi, e inizio scarabocchiare su quello che già so su questa band. Che dal vivo ho visto solo in locandina, sempre la stessa da anni, per lo meno qua a Catania. Sempre la stessa foto. Strano per un gruppo chiamato Diaframma.
2.
“Diaframma” come l’apertura incorporata nel barilotto dell’obiettivo di una macchina fotografica che controlla la quantità di luce che raggiunge la pellicola; “diaframma” come l’iride dell’occhio umano, in anatomia. Questo doppio valore della parola “diaframma” restituisce un tratto peculiare del disco che farò ascoltare in FM alla mia unica ammiratrice,“Siberia” del 1984: il forte simbolismo che permea i testi dei Diaframma in questa loro opera.
Il Simbolismo è un movimento poetico e letterario tra i più resistenti ai mutamenti che esista. Quando ero giovane, negli odiosi anni ’90, la maggior parte di coloro che iniziavano a cimentarsi con la poesia, ne subivano inevitabilmente il fascino. Nata in Francia nel diciannovesimo secolo, questa corrente ha come suo profeta il poeta Baudelaire, considerato l’iniziatore della poesia moderna, e come suoi apostoli Verlaine, Rimbaud e Mallarmé. L’attributo che storicamente li incorona è quello di “poeti maledetti”. Già solo questa definizione consolava il nostro sentirci “diversi” e il desiderio di antagonismo, segnava la nostra distanza da valori ampiamente accettati e condivisi, alleviava la vergogna di essere borghesi o di non esser nati poveri, giustificava i nostri eccessi e la presunzione di proclamarci poeti allergici all’alloro. Potevamo, insomma sciogliere e versare il nostro egoismo in metri liberi, senza vincoli.
Poi, con fragore di saracinesca che serra dal di dentro la scuola, calarono Pavese, la beat generation e Charles Bukowski. Ai versi aggiungemmo versacci, pensieri controversi, oscuri e spudorati a un tempo e, se andava bene, anche originali. Ci rallegrava che qualcuno non li capisse: la condizione di incompresi o di “nati postumi” era uno status ambitissimo. Allestimmo una scena di Chicago, anche se ci chiamavano “Seattle d’Italia”. Non il musical “Chicago”: la musica di Chicago. Hardcore, post-punk, noise, art rock, no-wave e math rock. Forse per questo Siberia, all’epoca, non mi entusiasmò: se mi attengo ai suoni ed al suonato, non c’era nulla che già non conoscessi.
Riascolto il disco. In Siberia i riferimenti ai Joy Division ed ai Bahuaus sono spudorati, ma non imbarazzanti. E che al giorno d’oggi, possono dare nuova giovinezza al disco: il revival del synt-rock e della new wave, riavvicina i ventenni che non ne vogliono sapere dell’inevitabile: l’hip-hop. La sessione ritmica è affidata ai Gianni e Leandro Cicchi, rispettivamente, batteria e basso, scarno quanto basta il primo, il secondo l’unico tra tutti che prova a divertirsi. Alla chitarra, Federico Fiumani coautore dei testi con Miro Sassolini. Miro Sassolini sarà voce dei Diframma fino al 1989, per cedere il posto a Fiumani, attualmente titolare della band. Non si sono lasciati bene.
Tra i primi risultati nei motori di ricerca, si evidenzia una polemica relativa alla ristampa del trentennale, uscita nel 2013, all’interno della quale, si vociferò, avrebbe partecipato anche Sassolini. Ma lui – dice a mezzo stampa – non ne sapeva nulla e fa notare come 2013 meno 1984 fa 29 e non 30. Fiumani, attraverso lo stesso canale, prima aveva parlato senza tenerezze. Da quello che trovo in rete, percepisco che questi non è “uno che le manda a dire” e che o lo si ama o lo si odia. Decido di omettere questa polemica in trasmissione, non sia mai mi ascoltasse in radio. O forse no: il programma dura un’ora ed il disco appena mezz’ora. Restano 30 minuti da riempire di parole. Non lo so, vedrò dopo.
Echi, suoni vaghi e non perfettamente definiti, riverberati, che suggeriscono ed evocano forme nubilose. Più scenografici che caratterizzanti. Siberia ha liriche lontane dalle tematiche sociali, in accordo con la poetica del Simbolismo. I testi dichiarano un profondo senso di estraneità ai fatti del mondo, non con distacco, ma con disagio, il disagio dello straniero che non riesce ad interagire ed integrarsi.
In Siberia, la “stanza” (o “strofa”) non è solo parte costitutiva della “canzone”, ma anche il luogo concreto dell’azione, definito letteralmente. Le parole descrivono scene da interno e continui rintanarsi tra pareti, che a volte sono regno e a volte prigione; un rifugio forzato, in attesa che passi la notte o l’asperità dell’inverno, a finestre serrate ed illuminazione prudente. Perché è il 1984: stragi impunite, spontaneismo armato, guerre di mafia, logge massoniche, preti corrotti, medio-oriente in fiamme, l’America latina in mano ai tiranni, U.S.A. contro U.R.S.S., muore Berlinguer, un attentato al Papa. E la maggioranza è silenziosa. Impotente davanti alle armi, pressoché terrorizzata, ammutolita dagli spari. E se un proiettile dovesse violare un muro portante o una finestra barricata di questa camere oscurate, il buco farebbe da foro stenopeico che risucchia l’immagine di ciò che sta fuori e le proietta nel tramezzo opposto. Esterni spesso rappresentati come immersi in una luminosità abbacinante, che riduce le forme a segni calligrafici, biancore di pagina non del tutto scritta, occupata soltanto da versi telegrafici e sintetici, al limite col criptico, messaggi da telescrivente per i proscritti della medesima generazione e comune sentire o sorte. E se il foglio fosse a righe o a quadretti, quelle linee assomiglierebbero al reticolato di un campo di internamento, di un gulag siberiano imbrigliato nel chiarore accecante di paesaggi ghiacciati.
Uhm. «Ma quando nel pezzo “Siberia” cantano “per raggiungere il fuoco / vivo sotto la neve” intendono i giacimenti di petrolio, gas e tungsteno della Čukotka?», mi chiedo con vago accento da comico milanese. Non è argomento per la trasmissione, andiamo avanti che è tardi. “Simbolismo” mi piaceva.
Fiumani e Sassolini, attraverso lo “sregolamento dei sensi“ teorizzato da Rimbaud (Lettre du voyant, 1871) prima di dedicarsi al commercio di schiavi, cui deve abbandonarsi il poeta per trasformarsi in veggente, non pervengono all’ignoto o alla conoscenza del mondo: le loro visioni si appellano al ricordo, lo mitizzano, lo riformulano, perché è l’unico paesaggio che possono manipolare. Inutile pensare di poter cambiare la realtà, l’adesso. La quantità di luce che passa attraverso il diaframma – appunto – serve a fotografare gli scenari inquieti e impressionati dell’esistenza, trincerata nell’individualismo. Associo il tutto ad Andrea Pazienza, quando in Pompeo scrive/disegna “quel cielo così bianco” e un volto di donna appare come una nebbia sugli alberi secchi.
Siberia è uno dei dischi italiani più belli di sempre, un altro capolavoro pubblicato dall’I.R.A. Records. Non lo dico io (che sono solo io e nient’altro), lo dice Ondarock, lo dice Rolling Stone Italia. Per quest’ultima, in tempi recenti, ha scritto Ernesto de Pascale, giornalista, conduttore radiofonico e musicista, ovvero colui che nel 1984 produsse il disco e che legò il suo nome ad altri lavori dei Diaframma (e degli Articolo 31) e alla nascente RaiStereoNotte.
RaiStereoNotte fu un’idea di Maurizio Riganti, già responsabile di trasmissioni come Alto Gradimento e Gran Varietà, con lo scopo di rilanciare i canali radiofonici Rai e contrastare l’avanzata delle radio private, proponendo dopo il giornale radio della mezzanotte su RaiStereoUno e RaiStereoDue, una programmazione che contemplava generi musicali difficilmente collocabili nel corso degli spazi radiofonici diurni e serali della radio di Stato, senza vincoli di genere, attenti alle avanguardie, ai nuovi linguaggi o alla riscoperta dei classici.Ernesto De Pascale è morto il 13 febbraio 2011.
Anche Andrea Lo Pinto è morto, che nemmeno mi ricordo quando.
Presi il vinile che mi ha prestato il mio ex-amico simbiotico Servio Destrogìro. Mi guardai allo specchio tentando di capire quale punto preciso del mio volto gli ha ispirato così tanta fiducia. Uscii di casa. In radio, diedi un’occhiata ai miei appunti, alzai il volume del microfono e dissi che.