Copa América secondo Sgarrincha

La Copa America è indiscutibilmente il torneo continentale di maggior fascino, preferibile persino ad alcune edizioni degli stessi Mondiali. Il perchè è facile da intuire ma praticamente impossibile da descrivere e comprendere a fondo, è un qualcosa che ha a che fare con la magia di un continente ancora oggi in parte inesplorato, in continua contraddizione con sè stesso, accogliente e allo stesso tempo riluttante. Della Copa fanno parte tutti gli aspetti della vita, dalla religione alla politica, dalla passione sportiva all’economia, dalla repressione alla rivoluzione, come in fondo accade anche in Europa e nel resto del mondo, solo che in Sud America questi fattori non restano a margine a fare da contorno ma entrano prepotentemente a mescolarsi tutti insieme per creare una vera e propria pozione sciamanica che non si beve ma si assorbe dall’atmosfera di quei giorni. Una competizione che ci riporta a un calcio che crediamo lontano nel tempo e nello spazio ma che invece probabilmente non esiste se non nel mito: la Copa America è Epica del calcio, Mitologia di un Continente. In quanto tale si alimenta di intrighi, tradimenti e ire degli dei; inscena battaglie gloriose decise da astuzie mortali o gesti divini; si svolge in geografie improbabili, terre di fuoco, fitte jungle e montagne che bucano il cielo, sotto gli occhi di tiranni ed eserciti. Non sorprendano nè indignino quindi arbitraggi dubbi e quasi sempre favorevoli ai padroni di casa, trattamenti privilegiati per alcuni giocatori (dentro e fuori dal campo) e penalizzanti per altri, comportamenti al limite della decenza e risse in campo e fuori. La Copa è una manifestazione democraticamente aristocratica alla quale partecipano tutte le nazioni del continente, a patto che abbiano una tradizione calcistica degna, che a turno organizzano il torneo seguendo un infantile quanto efficace ordine alfabetico. Ci sono poi due nazioni extra-continentali che vengono invitate a partecipare, ancora aristocrazia questa volta diplomatica – per anni, invitati fissi furono gli U.S.A. a dimostrazione dell’influenza che esercitavano in Sud America, nel 2015 fu invitata per prima la Cina, principale partner commerciale del Brasile, che ha poi rifiutato come anche il Giappone in favore di Messico e Giamaica. Diplomazia che arriva fino al Vaticano: per le edizioni 2015, 2019, 2023, 2027 per ogni gol o rigore parato durante la competizione verranno donati 10 milioni di dollari al progetto “Scholas” promosso dal futbolero Papa Bergoglio a sostegno dell’educazione dei minori indigenti in America Latina, secondo una convenzione stipulata fra la Santa Sede e la CONMENBOL. Quest’ultima ha sede a Luque in Paraguay, che è così uno dei paesi più poveri del continente ma anche uno dei più influenti calcisticamente, e che è l’unico ad aver concesso, nel 1997, ad una federazione calcistica, la CONMENBOL appunto, uno status giuridico equiparabile a quello di ambasciate, consolati e sedi delle Nazioni Unite, godendo dell’immunità diplomatica. La CONMENBOL è così una sorta di Olimpo calcistico entro il quale le leggi degli uomini mortali non hanno nessun valore: beni e archivi non possono essere perquisiti o confiscati, e i funzionari non possono essere arrestati. Il calcio è una religione, pagana e onnivora, intrisa di tutto ciò che è vita: bellezza e orrore, intrigo e giustizia, oppressione e libertà. Vero e proprio moumento è l’ Estadio Nacional de Chile, a Santiago, dove la Roja ha giocato tutte le partite dell’edizione 2015 e dove ha conquistato la sua prima Copa America, nella stessa edizione, ma che fu anche teatro della tremenda repressione di Pinochet. Divenne infatti dall’undici Settembre al nove Novembre luogo di tortura e assassinio degli oppositori al regime. Oggi una parte dello stadio – che poi ha effettivamente subito poche modifiche – è rimasta immutata, come nel ’73. Si tratta del punto da cui i prigionieri lanciavano i proprio vestiti e i proprio oggetti personali fuori dallo stadio, nella speranza che un amico o un familiare li trovassero e capissero così dove si trovavano.

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Quella del Cile NON è stata la vittoria di Davide contro Golia. Ha vinto la squadra che ha espresso il gioco migliore (insieme al Perù), convinta dei propri mezzi (questa è stata definita unanimemente la miglior generazione calcistica cilena di sempre) e decisa a non mancare l’appuntamento con la storia. Un gioco propositivo, verticale. Una squadra senza un vero centravanti, ma anche senza veri difensori – Diaz più volte si è spinto in avanti durante la Copa, Medel è un mediano, Jara un terzino e Silva, che forse è quello che si avvicina di più alla figura dello stopper, ha esordito in finale. La spinta di Isla sulla fascia destra, l’estro instancabile di Sanchez, l’elegante grinta di Aranguiz, la voglia di emergere di Vidal, l’aggressività furiosa di Medel, le verticalizzazioni magiche di Valdivia, il sostegno di Santiago. Ha vinto la squadra che meglio ha rappresentato il concetto di calcio sudamericano, un calcio che non attende ma attacca, che ferma gli avversari con la foga prima ancora che con la tattica, che si alimenta di uno spirito che parte dal campo e si espande in un’intera nazione (o forse viceversa). Il paradosso è che queste sono caratteristiche argentine. Questa edizione della Copa è stata anche una sfida intestina di scuole di calcio albicelesti. In semifinale tutte e quattro le squadre avevano in panchina un allenatore argentino: Ricardo Gareca (Perù), Jorge Sampaoli (Cile), Ramon Diaz (Paraguay), Gerardo Martino (Argentina) – a questi va aggiunto quantomeno Josè Pekerman (Colombia). I primi due mistici custodi della scuola di Marcelo Bielsa, gran maestro di calcio che proprio in Cile è divenuto un santone. Bielsa si rifà a sua volta al calcio argentino degli anni venti, un calcio vicino al tango e al sangue, elegante ed orgoglioso, offensivo tanto quanto quello brasiliano ma malinconico anzichè allegro. Diaz e Pekerman sono invece paladini del calcio argentino di Menotti, allenatore nel ’78, che si affidava innanzitutto alla personalità e alla garra. Non è un caso che Passarella è il simbolo di quell’idea di calcio, che segna una discontinuità col passato ma che risulta vincente e appassionante. Un calcio che però ha bisogno de los huevas (come direbbero loro), ha bisogno di gente che non indietreggia, non tituba, non trema. Il Tata Martino è da molti definito un bielsista, niente di più falso! Basta guardare le partite della sua Albiceleste per capire che si inserisce perfettamente nel solco della tradizione menottiana, un po’ come fece Bilardo nell’86 senza però averne i meriti tattici nè la fortuna di poter schierare un dio del fùtbol come Diego Maradona. Questa Copa è un monito per l’intero Sud America, in crisi di identità – Brasile su tutti – e che deve ritrovare il filo che lo ricolleghi a sè stesso. Bielsa sta provando a farlo, Sampaoli lo segue e Tabarez parallelamente conduce la stessa crociata in Uruguay, convinto che lo spirito degli anni ’20 e ’30 non sia svanito. Le ultime vincitrici della Copa America sono Uruguay e Chile.

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Con Isla (Juventus), Medel (Inter), Vidal (Juventus), il Cile è la squadra che ha schierato più “italiani” titolari durante la Copa. A questi si aggiungono Vargas – che è ancora di proprietà del Napoli, e che ha addirittura vinto il titolo di capocannoniere in coabitazione con Guerrero e davanti a Vidal – Mati Fernandez (Fiorentina) e Pinilla (Atalanta) che pur partendo dalla panchina erano considerati in prima fila da Sampaoli per eventuali cambi – anche se Henriquez ha soffiato il posto a Pinilla in finale, probabilmente anche in previsione dei rigori – e infine Sanchez, che le cose migliori le ha fatte vedere ad Udine dove è maturato ed ha mostrato il suo enorme talento più che in qualsiasi altra squadra. Dall’altro lato, in finale, il Tata Martino poteva contare nella sua rosa in Romero (Sampdoria), Roncaglia (Fiorentina), Biglia (Lazio), Pereyra (Juventus), Higuain (Napoli), Tevez (Juventus – e adesso Boca). Di questi però l’unico titolare inamovibile è stato Romero, menzioniamo anche il Flaco Pastore che come Sanchez ha mostrato maggiormente il suo talento in una “provinciale” italiana, il Palermo, e che è stato a nostro avviso il migliore degli argentini. Sarebbe falso e tendenzioso sostenere che il Cile abbia vinto grazie agli italiani, sono mille altri i motivi. Non lo è però sostenere che l’Italia, anche in un momento di tremenda crisi di gioco, di sistema e di protagonisti, riesce a instillare carattere e determinazione. Nel nostro paese ci si perde in un magma confuso di non gioco e intrallazzi, oppure si emerge con un carisma nuovo che rende pronti a qualsiasi sfida. Purtroppo siamo ancora lontani dall’elogio al calcio italiano, ma non tutto è perduto, la nostra identità non è svanita, e un piccolo segnale ci giunge dall’altro lato del mondo.