“Ho due sogni: il primo è giocare un mondiale, il secondo è vincerlo.”
Nel calcio come nella vita accade che a vincere siano (troppo spesso) le squadre che rappresentano i poteri forti, quelle squadre dietro le quali si muovono i grandi interessi economici, basti pensare alla famiglia Agnelli e la Juventus, Berlusconi e il Milan, gli emiri e i magnati russi in giro per l’Europa, le banche e il Real Madrid.
Nel calcio come nella vita l’ombra del complotto, della truffa incombe su partite truccate, arbitri e giocatori corrotti, campionati vinti prima di esser disputati.
Nel calcio come nella vita, però, capita talvolta che l’arroganza e la prepotenza dei potenti soccombano alla dedizione, al sacrificio, al genio. E quando accade è gioia incontenibile, perché nella vita sono tante, troppe le sfumature, nel calcio invece la parzialità è assoluta, la squadra del cuore una ed una sola, l’identificazione del tifoso totale.
Il calcio è un gioco semplice e primitivo, si gioca con i piedi quasi a negare l’evoluzione della specie, risveglia istinti primordiali, 22 uomini si rincorrono su un rettangolo di gioco e si contendono un mistico feticcio: il pallone.
Tutto questo lo hanno capito bene il potere politico e quello economico, che da sempre cercano di avvantaggiarsene per veicolare l’opinione pubblica, provando ad inquadrare e a portare dalla propria parte i grandi campioni, e controllando squadre al cui seguito si sgolano enormi tifoserie (accadde in Italia durante il fascimo, in Spagna col franchismo, nei regimi sudamericani, e nell’Unione Sovietica dove il KGB controllava la Dynamo Mosca e l’Armata Rossa la CDKA Mosca).
Il calcio è metafora di vita, con le sue regole e le sue ingiustizie, con i suoi giochi di potere e le sue ombre, con i suoi idoli e il suo eroe: Maradona.
Qualche tempo addietro, è andata in onda una puntata di Report durante la quale si è parlato delle sue vicende col fisco italiano, e quando il giornalista che ha curato il servizio gli ha chiesto se si fosse pentito di aver mandato a quel paese Equitalia in diretta da Fazio, Maradona ha risposto di aver incontrato italiani che gli hanno detto che di gesti dell’ombrello ne doveva fare tre, non uno.
È basso, tozzo, col fisico lontanissimo dall’ideale dell’atleta, frequenta la gente sbagliata, ha figli illegittimi sparsi per il mondo, definisce Bush un assassino, fuma sigari con Fidel Castro, parla spesso a sproposito, si droga e la gente lo ama.
Più in basso si scende nella scala sociale più questo amore cresce, non tanto perché è dalla povertà, dal popolo che soffre e che lotta che egli viene, ma perché non ha tradito. Anche Pelè era povero, ma si è istituzionalizzato, si è fatto assorbire dal sistema, Maradona non solo gli sfugge, lo combatte.
Le battute furbe di chi-la-sa-più-lunga-degli-altri di Platini, i capelli sempre ordinati di Cristiano Ronaldo, le dichiarazioni sempre composte di Messi danno la nausea, questa specie di satiro invasato sempre in preda a un delirio a metà fra onnipotenza e infantilismo fa battere il corazòn.
Scrive Vladimir Dimitrijević: “Intendiamoci: Pelé, Platini, Beckenbauer sono grandi giocatori… Beckenbauer incarna il genere del giocatore perfetto, del professionista… imperturbabile sempre in cravatta, inforca occhiali d’oro e continua vivere un’esistenza che non mi appassiona per nulla… Quando Don Diego fa il suo ingresso in un qualsiasi bar, tutti gli vogliono offrire un bicchiere. Ma a Beckenbauer no, aspettano che il giro lo paghi lui“ (La vita è un pallone rotondo, Adelphi, 2000, p.117).
La grandezza di Maradona sta nell’esser riuscito, anche solo per poco, anche solo in un gioco, a ribaltare le gerarchie sociali, a trasformare gli sconfitti in vincenti, gli oppressi in trionfatori.
Tutto questo praticamente da solo, con traiettorie impensabili, dribbling inverosimili ma con alle spalle il sentimento di un intera città, di un’intera nazione. Questa era la sua forza: la completa e naturale immedesimazione della gente in lui e di lui nella gente.
Quando arriva in Italia è già un campione riconosciuto, ma è anche e soprattutto un ribelle che sceglie Napoli per diventarne il mito.
La nostra società è spaccata fra il ricco Nord e l’arretrato Meridione, nessuna squadra del Sud è mai riuscita a vincere lo scudetto, fino a quel momento.
Il Nord aveva la ricchezza, le fabbriche, la FIAT ma il Sud aveva Maradona!
Quando Kusturica lo segue per girare il docufilm su di lui Maradona gli racconta esagitato: “siamo andati a Torino e gli abbiamo fatto sei gol… sei gol alla squadra dell’avvocato Agnelli… sembrava impossibile che una squadra del Sud potesse battere una del Nord.” In realtà i gol furono “solo” cinque, ma che importanza può avere? Diego è immaginazione esagerata.
Col Napoli vince due scudetti (l’anniversario del secondo è stato il 29 Aprile) ma soprattutto porta un’allegria travolgente; prima della finale di coppa UEFA contro lo Stoccarda (poi vinta) comincia a palleggiare a ritmo di musica ipnotizzando il pubblico. Durante una visita di Osvaldo Soriano al ritiro della nazionale argentina per i mondiali italiani del ’90, comincia a palleggiare con un’arancia facendo un giro del campo, poi un altro, continua a palleggiare veloce come un giocoliere e alla fine chiede agli spettatori quante volte ha toccato la palla con la mano, tutti rispondono “nessuna!” e lui “due, avete sbagliato ora sapete come si è sentito l’arbitro della partita contro l’Inghilterra”, un mago.
Proprio quella partita rappresenta forse il momento più alto di tutta la sua carriera.
È il 1986, i mondiali di calcio si svolgono in Messico e ai quarti di finale si affrontano l’Inghilterra e l’Argentina. La Tatcher è il primo ministro britannico e la ferita lasciata dalla guerra delle Falkland è ancora aperta e profonda, l’Argentina non ha ancora smesso di piangere i suoi morti.
Non è quindi una semplice partita di calcio, è una rappresentazione della secolare lotta fra il Nord e il Sud del mondo, fra il colonialismo britannico e le rivendicazioni patriottiche argentine, per la seleccion è la partita contro gli invasori.
Questa volta però la potenza militare inglese non può nulla, al 54° minuto la palla arriva fra i piedi di Maradona vicino la linea di centrocampo, la porta è lontana e le maglie inglesi tante ma Diego comincia a correre e superare gli avversari uno dopo l’altro sempre più veloce sempre più imprendibile sempre più leggero, arriva davanti al portiere finta il tiro, lo dribbla, tira e la palla entra in rete mentre il leggendario commentatore Victor Hugo Morales urla dagli spalti “Genio, genio, genio! Ta-ta-ta-ta-ta … Goooool…Quiero Llorar… Dios Santos, viva el futbol… Diegooool Maradona… en una corrida memorable, en la jugada de todos los tiempos… barrilete cosmico, ¿de que planeta viniste? para dejar en el camino a tanto ingles, para que el pais sea un puño apretado…Diego, Diego, Diego! Gracias Dios por el futbol, por Maradona, por estas lagrimas”.
Si dice che più di un miliardo di persone saltò contemporaneamente nel momento in cui la palla superò la linea di porta, spostando per un attimo l’asse terrestre.
Questo gol è considerato da molti il più bello di sempre, ma è tre minuti prima che Maradona raggiunge un apice inarrivabile.
Di tutte le regole del gioco del calcio la più famosa è quella che impedisce ai giocatori di toccare la palla con la mano, ma il genio è tale proprio perché al di fuori di ogni regola.
Maradona è a metà campo, dribbla un paio di avversari, passa ad un compagno ma interviene un difensore inglese che alza il pallone in alto verso il centro dell’area di rigore, su di esso si lanciano il portiere e quel “nano” di Maradona che colpisce la palla con la mano e la mette in porta, gli inglesi protestano ma è gol, l’arbitro convalida il gol. È stata la Mano de Dios, non Maradona, è stato l’urlo del popolo argentino a spingere il pallone in gol, la rivalsa di una nazione intera che in quegli anni lottava per uscire da un lungo periodo di dittatura, che gridava “Nunca Mas”, che gridava “Viva Diego”.
Quel gesto racchiude in sé la furbizia di chi deve arrangiarsi, di chi non può permettersi di sottostare alle regole e allora le straccia e diventa genio.
Maradona è il più grande calciatore di tutti i tempi perché è più di un calciatore, Maradona è un popolo.