UNA MANO BRASILEIRA

D’estate andavamo tutti a giocare un campionato in Calabria. Si svolgeva tutto in un paio di settimane, partivamo la mattina presto in pullman e dormivamo fino allo stretto. Una volta sul traghetto ci svegliavamo, mangiavamo un bisunto arancino al ragù e andavamo sul ponte a goderci quella traversata che durava poco più di venti minuti, ma ci faceva sentire come le nazionali europee che attraversavano l’oceano per andare a giocare i mondiali in Sud America. Emozioni che solo un isolano può comprendere. Da Villa San Giovanni cominciava la scalata dell’Aspromonte e ogni anno facevamo tappa in un casolare vicino ad un laghetto. Una signora e suo marito vendevano lì salumi, formaggi e attrezzature per la pesca, ci preparavano piccantissimi panini con la ‘nduja che mangiavamo all’ombra degli alberi. Discutevamo delle squadre che di lì a poco avrebbero formato, facevamo pronostici su chi avrebbe vinto e su chi avrebbe segnato più gol. Studiavamo quelli nuovi che erano sempre dei campioni o degli inetti, mai che ce ne fosse uno che sapeva semplicemente giocare senza lode e senza infamia. Arrivavamo a Gambarie con una voglia matta di giocare. Fra urla e schiamazzi ci dividevano nelle varie stanze. C’era sempre qualcuno che rimaneva scontento perché non era riuscito ad avere i compagni di stanza che desiderava, ma durava pochissimo perché una volta consegnateci le chiavi salivamo di corsa a cambiarci: scarpette, calzettoni, magliettina e giù al campo.

I primi giorni ci allenavamo e giocavamo delle amichevoli che permettevano agli allenatori di osservarci e di creare delle squadre equilibrate, compito che oggi mi rendo conto essere incredibilmente arduo perché si doveva tener conto delle abilità tecniche e tattiche di ognuno di noi, ma soprattutto di simpatie, antipatie, amicizie e rivalità.

Ci alzavamo presto e giocavamo tutto il giorno, ci fermavamo solo per pranzare. Sarà stata la fame che avevamo dopo aver corso per ore, saranno stati i piatti buonissimi che ci servivano o l’allegria con cui li mangiavamo, fatto sta che ancora oggi mio fratello ricorda con l’acquolina in bocca quei pasti consumati lì a Gambarie.

Facevamo una vita salutare, ogni tanto andavamo a fare qualche escursione per i boschi, nelle pause fra un allenamento e una partita giocavamo a scacchi, a biliardino e a carte. La sera andavamo a prendere un gelato nella piazza del paese, lì c’era un solo bar con un flipper mezzo rotto. Io mi chiedevo perché i calciatori odiassero tanto i ritiri, visto che era così che me li immaginavo.

Il torneo aveva la formula classica che prevede una prima fase a gironi e poi quarti, semifinale e finale.

Quell’anno la mia squadra era fra le favorite, con noi giocava Luigi che era considerato talmente forte che fu deciso che giocasse in porta per non squilibrare troppo le partite e io dovetti arretrare a centrocampo perché in attacco non c’era spazio nonostante i tanti gol da me segnati nelle edizioni precedenti. Non avevo il talento per fare il fantasista, così quell’estate la vissi da mezzala offensiva e imparai il piacere dell’assist, tanto che molto spesso mi ritrovai davanti la porta a servire il nostro numero 9 – che fu poi capocannoniere – invece di segnare gol facili facili. Durante allenamenti e amichevoli indossavo la maglietta della squadra con cui giocai l’anno prima: era di un giallo oro con le maniche e il numero 7 sulle spalle – che solo dopo imparai essere il numero di Garrincha – verdi. Per questo, un po’ per simpatia e ancor più per scherno, fui soprannominato Brasileiro, e ancora oggi ogni tanto qualcuno mi chiama così.

Il girone lo passammo senza difficoltà alcuna e le giornate passavano allegre. Mio fratello giocava il campionato dei più piccoli e si ruppe la mano prendendo a pugni un idiota che lo stuzzicava e che non aveva capito che anche i più buoni hanno un limite che non bisogna oltrepassare. L’ultima settimana ci raggiunsero anche i nostri genitori che alloggiavano nell’albergo accanto, l’Hotel Miramonti. Si godevano l’aria pulita e la tranquillità magica di quel posto, e mio padre si sedeva a guardarci giocare quando c’erano le partite, fumando le sue Merit e chiacchierando con mia mamma. Alla fine del torneo si assegnavano dei premi speciali, c’era quello per il miglior portiere, per il capocannoniere, per la rivelazione del campionato e quello per il miglior giocatore in assoluto. Per l’assegnazione di quest’ultimo si teneva conto non solo delle qualità tecniche, ma anche della personalità, della maturità e della sportività dimostrate in campo e fuori. Capii di essere uno dei candidati come miglior giocatore (che ripeto: non significava il più bravo) e mi venne un’improvvisa voglia di vincere quel titolo. Decisi, senza nemmeno rendermene conto fino in fondo, di giocare sporco. Non protestavo mai con l’arbitro, calmavo i miei compagni quando si agitavano con gli avversari, subivo falli senza fare una piega e quando c’erano le altre partite andavo a sedermi accanto ai mister Pergolizzi e Di Bella – che avrebbero assegnato i premi – criticando fra me e me, ma facendo bene attenzione che mi potessero sentire, quelli che imprecavano in campo, protestavano o erano violenti e rissosi. In particolare c’era un ragazzo figlio di un ex calciatore che credeva di essere il più forte di tutti e quando la sua squadra cominciò ad andar male, iniziò a scoppiare in lacrime in campo per il nervosismo, come un cretino. Durante uno di questi suoi attacchi intuii che anche mister Di Bella non lo sopportava, andai accanto a lui a ripetere a voce alta che era una vergogna, il mister mi guardò con complicità: ormai il premio era mio e anche in campo acquistai un alone di rispetto, più e più volte l’arbitro cambiò la sua decisione sull’assegnazione di una rimessa laterale o un fallo perché io avevo espresso parere contrario.

La finale fu molto equilibrata, noi non giocammo molto bene, faceva caldo ed eravamo stanchi.

Non ricordo esattamente il punteggio, ma eravamo in parità quando partì un lancio lungo dalla nostra difesa. La palla volava verso il fallo laterale sulla trequarti avversaria, saltai con il ginocchio alzato per stoppare la palla con la coscia proprio sulla linea. Mi resi conto che non sarei riuscito a controllare il pallone, allora per controllarlo alzai la mano nascondendola con la gamba. In quel momento mi marcava Carlo – ancora oggi mio amico – che vide tutto e andò protestare inutilmente con l’arbitro mentre io correvo verso la porta e davanti al portiere passai la palla al nostro 9 che segnò a porta libera il gol della vittoria. Carlo mi portò dall’arbitro sperando di estorcermi una confessione, io negai tutto e la credibilità che avevo guadagnato fino a quel punto fece sembrare Carlo e i suoi compagni dei pazzi piagnucolosi incapaci di accettare una sconfitta tutto sommato immeritata. La mia squadra vinse il campionato, il nostro 9 il titolo di Capocannoniere ed io il premio come Miglior Giocatore.